Molti piloti, negli ultimi anni, stanno scegliendo di abbandonare F1 e categorie cadette per trasferirsi negli Stati Uniti alla ricerca di un’alternativa, e questo in realtà ad un occhio esperto non risulta strano: da oltre mezzo secolo, infatti, piloti della F1 giungono all’Indycar con successo.
Il debutto di Fernando Alonso alla 500 miglia di Indianapolis del 2017 ha solo rilanciato un fenomeno già presente da molti anni, con il merito di aprire anche una nuova prospettiva per chi dalle formule minori cerca un posto da pilota professionista.
Scavando nel passato, si scopre che Jacques Villeneuve è passato alla CART, antenata dell’Indycar, vincendone il titolo nel 1995. Nigel Mansell, invece, diventò campione al primo tentativo nonostante un gravissimo infortunio, nel 1993. Se torniamo agli anni ’60, dobbiamo poi citare le due vittorie britanniche: Jim Clark e Graham Hill, nel 1965 e 1966.
Ma, ad oggi, è l’Indycar l’unica alternativa?
Per rispondere dobbiamo tornare indietro di circa vent’anni, quando il mondo della comunicazione è cambiato per sempre: se prima gli spazi mediatici erano limitati e contesi, con l’arrivo di internet e dei social è diventato più facile farsi conoscere, trasmettendo le proprie gare anche fuori da piattaforme convenzionali, talvolta perfino in maniera gratuita.
In questo modo, molti organizzatori si sono messi in luce, riuscendo anche a espandere i propri orizzonti. Molti campionati nazionali, ad esempio NASCAR e SuperGT, sono anche diventati di interesse internazionale. Ad oggi, in un mondo dove diversi campionati godono di buon seguito ed offrono prospettive di professionismo, quando non si trova spazio in una Formula Uno dai pochi posti ed alti costi, si guarda altrove.
Il primo campionato che viene in mente, parlando di una carriera alternativa, è sicuramente il WEC, data l’attrattiva della 24 ore di Le Mans ed il recente rilancio di una classe regina combattuta grazie all’introduzione delle Hypercar. In realtà l’interesse per l’endurance da parte dei piloti di F1 è molto antico ed il legame tra i due campionati, sebbene indebolito tra gli anni ’90 e 2000, non si è mai dissoluto. Ovviamente gareggiare nelle classi destinate ai prototipi è l’idea principe, tenendo in conto tuttavia che proprio i prototipi sono sempre più un ripiego per chi non approda alle vetture formula. Piloti come Kobayashi e Buemi hanno qui trovato il loro ambiente, con l’unico passaggio inverso che invece è stato quello di Hartley, con la fallimentare avventura in Toro Rosso.
Parliamo anche di GT…
Per quanto riguarda le classi GT, bisogna aprire un nuovo discorso che coinvolge anche i campionati SRO: GT World Challenge e Intercontinental GT Challenge. In questo caso, infatti, grazie al genio di Stephane Ratel ed alla massiccia campagna marketing aiutata dalle sponsorizzazioni di Fanatec e Amazon World Services, stanno crescendo piloti che puntano al GT già dall’inizio. La politica del limitare o negare l’ingresso nei campionati a team ufficiali aiuta a mantenere bassi i costi, per serie che comunque offrono un considerevole numero di weekend di gara.
Inoltre, non potendo portare le loro squadre, i costruttori sono spinti ad accordarsi con i team ed inviare dei loro piloti stipendiati, al fine di guadagnare buona reputazione vendere più vetture a paganti e collezionisti. Così, esistono costruttori che arrivano a finanziare al carriera di decine di piloti. Si pensi infatti a Porsche e Audi che proprio grazie al GT conservano la buona fama nelle corse automobilistiche. Insomma, se Bortolotti e Rigon appartengono alla generazione dei pionieri del passaggio da formule a GT – abbandonando le ambizioni di F1 – e piloti come Matteo Cairoli iniziano con il preciso sogni di diventare un “Factory driver”, per chi non riesce a giungere in F1 si aprono buone prospettive. Raffaele Marciello, ad esempio, ad oggi è pilota di punta Mercedes, mentre Callum Ilott ha corso un anno per Ferrari prima di passare all’Indycar, la stessa Ferrari che stipendia Antonio Fuoco.
L’eccezione
Il caso di Kimi Raikkonen invece è probabilmente destinato a non ripetersi: in pausa dalla F1 nel 2011 sperimenta NASCAR e rally. Torna poi in NASCAR nel 2022 e si dedica ad allenare il figlio nel motocross. Se anche un Valterri Bottas si dedica part-time ai rally, questo non è da attribuire ad un canale di passaggio dalla F1 ma alla cultura motoristica finlandese che tiene il rally in altissima considerazione. Bisogna ricordare infatti che se in F1 quattro titoli sono andati alla Finlandia nella storia, nel mondiale rally quattro titoli li ha vinti un solo finlandese: Tommi Makinen, mentre i suoi connazionali ne hanno portati a casa altri undici!
In conclusione, in un mondo mediatico dove si espandono le prospettive di professionismo, sembra che esistano tre vie principali per trovare il proprio futuro fuori dalla F1: Indycar, endurance e GT. Le rare eccezioni forse sono le storie a cui ci si affeziona di più, e le occasioni “standard” sono quelle che portano i piloti a realizzare il proprio sogno. Alla fine tutti loro hanno lo stesso desiderio: correre. All the rest is just waiting.