Renata Nosetto racconta la vita del marito Roberto attraverso i suoi diari.
Qualche settimana fa il nostro team è stato a Imola, dove abbiamo avuto l’occasione di intervistare la Signora Renata Nosetto davanti al monumento in ricordo di Gilles Villeneuve. Lei e il marito hanno passato la loro vita fra un circuito e l’altro, per Ferrari e Ecclestone. Una storia di amore e di passione per i motori, raccontata nel libro scritto proprio dalla signora Nosetto.
Lei ha scritto un libro “Giù la visiera e piede a tavoletta” edito da Pathos Edizioni, incentrato sulla storia di Suo marito, Roberto Nosetto, il Suo lavoro alla Ferrari e nel motorsport. Come Le è venuta l’idea e quanto tempo ci è voluto per ultimare il progetto?
Mio marito era un grande appassionato di storia, prima, però, veniva la Ferrari. Se non fosse diventato ingegnere, sicuramente sarebbe stato un professore di Storia. Lui diceva spesso “fino a che qualcuno ti ricorda, tu non muori mai”. Da questa sua frase ho preso spunto per scrivere il libro, non volevo farlo dimenticare. Mi piace pensare che fra un po’ di anni qualcuno prenderà in mano queste pagine, magari comprate in una bancarella di libri usati e leggerà la sua storia, facendolo rivivere un’altra volta.
Scrivere questo libro è stato un percorso lungo e sofferto, durato più di due anni. Ho preso le agende di mio marito e i miei diari, i ricordi di 53 anni passati insieme e mi sono messa a trascrivere tutto al computer, cercando di narrare le vicende con un punto di vista esterno, oggettivo, senza dare giudizi personali. Dopo aver scritto più di mille pagine mi sono chiesta “è la cosa giusta da fare?” Lui era una persona molto schiva e durante la stesura sono entrata nell’intimo di questi diari. Alla fine mi sono decisa a pubblicare il libro, dopo aver dimezzato il numero delle pagine. Ho trovato una casa editrice, Pathos Edizioni, che mi ha supportato e c’ha creduto e ora sono contenta di averlo fatto.
Ferrari chiama Suo marito a lavorare per lui nel 1976, cosa gli disse? Com’è stato il Vostro rapporto?
Fin dalla laurea lui era stato guidato da Enzo Ferrari. Aveva fatto la tesi di laurea su una Ferrari Testarossa, aveva già avuto occasione di parlare con l’ingegnere e fin da subito aveva espresso il desiderio di lavorare per lui. Era il sogno della sua vita, gli scrisse la prima lettera ancora al primo anno di liceo, “voglio diventare ingegnere e venire a lavorare da lei”. Ferrari gli rispose di continuare con gli studi, indirizzandolo anche verso il Politecnico di Torino.
Nel periodo in cui Enzo Ferrari lo chiamò, mio marito non stava molto bene. È stato un periodo di crisi, non sapeva cosa fare, doveva decidere ma non voleva deludere Ferrari. Partimmo da Milano per andare a Maranello e Ferrari disse che non aveva bisogno di lui subito, ci suggerì di fare una vacanza. Dopo un paio di mesi chiamai io Ferrari per dirgli che era pronto. Tornammo a Maranello e mio marito gli disse “Ingegnere, questa volta mi sono portato la penna verde per firmare il contratto”.
Com’era Ferrari come persona? Qual è la cosa che impressionava di più di lui?
Ferrari è stato descritto in tanti modi, con tante sfaccettature diverse. Era un uomo molto duro, pretendeva tanto, ma dava anche tanto. Portava sempre gli occhiali scuri per nascondere le emozioni, raramente lo si poteva vedere con gli occhiali chiari. Diceva sempre che il corpo umano è in grado di nascondere i sentimenti e quello che si pensa ma gli occhi no, gli occhi tradiscono, per questo preferiva nasconderli.
Era un uomo fedele e sempre molto disponibile con i suoi dipendenti, ma non voleva essere tradito. Se lo facevi non entravi più nel cancello della Ferrari, ti faceva trovare una scatola con le tue cose e la liquidazione ed era finita lì. Per lui la Ferrari era la sua creatura e bisognava esserle fedele fino alla morte.
Ho sempre avuto l’impressione che fosse un uomo estremamente solo, malgrado fosse attorniato da molte persone. D’estate e durante le feste cercava compagnia, per poter parlare di cavolate, per rilassarsi. Era un grande conoscitore di uomini, riusciva a tirarti fuori tutto e neanche te ne accorgevi. Ti faceva una sorta di radiografia ed era in grado di capire tutto di te. Amava anche
mettere i suoi uomini in competizione fra loro, la competizione quella sana e stimolante. Ti ritrovavi sempre in prima linea e lui non faceva nulla per cambiare le acque, se la rideva
Cosa vuol dire per Lei tifare Ferrari?
Ho conosciuto mio marito a 17 anni. Dopo pochi mesi mi disse “credo di essermi innamorato di te però io devo diventare ingegnere e andare alla Ferrari. Non chiedermi mai di scegliere fra te e la Ferrari perché onestamente, non saprei chi scegliere”. Quel giorno decisi che la Ferrari era lui e amando lui, la Ferrari è diventata parte di me. Non sapevo nulla sulle macchine, sulla Ferrari, sulla Formula 1, ma lui piano piano mi ha insegnato. Sono cresciuta amando lui e amando la Ferrari.
Un’altra figura importante della Formula 1, oltre a Enzo Ferrari, è Bernie Ecclestone. Com’è nato il Vostro rapporto? Come vi siete conosciuti?
Penso che Bernie come carattere sia molto paragonabile a Enzo Ferrari, era di un’intelligenza sovrumana.
Quando Ferrari è morto noi eravamo a Imola e non sapevamo cosa fare, avevamo puntato tutto sulla Ferrari e ora eravamo senza una guida. Conoscevamo Ecclestone in quanto presidente della FOCA (Formula One Constructors Association) e lui quindi veniva spesso qui. Mio marito disse che l’unico modo di continuare era chiedere a Ecclestone cosa fare. Partimmo alle 6 di mattina per andarlo a trovare in Inghilterra e alle due del pomeriggio avevamo già firmato il contratto con lui. Era promotore del Gran Premio del Belgio, si correva a Spa, un circuito bellissimo. Organizzavamo le gare di Formula 1, moto e prototipi. Fu un periodo pazzesco, avevamo casa a Imola, precisamente alla Piratella, però ne avevamo anche una in Belgio, dove stavamo per quattro mesi l’anno. Tornavamo a casa per un mese per poi partire nuovamente per l’Arizona, per organizzare il Gran Premio degli Stati Uniti. Era un circuito come Montecarlo, andava montato e ci voleva tempo quindi abbiamo preso casa anche là. Abbiamo fatto questa vita per tre anni fino a quando abbiamo detto basta, non ce la facevamo più ad essere sempre in movimento.
Abbiamo imparato tanto da Enzo Ferrari come anche da Bernie Ecclestone, entrambi prendevano le decisioni da soli e in fretta, ma Bernie la cambiava in corso d’opera, non eri mai sicuro di star facendo quello che lui voleva. Mi sono ritrovata a seguire l’amministrazione di un Gran Premio pur essendomi sempre occupata dell’ufficio stampa, a lui non importava. Ti offriva delle opportunità e ti buttava dentro.
È un grande uomo e la Formula 1 gli deve tanto.
Suo marito è stato direttore dell’Autodromo di Imola per ben 11 anni, dal 1979 al 1990. Qual è il ricordo più bello legato a questo circuito?
Ci sono molti bei ricordi legati a questo periodo perché si è trattata di un’opera titanica. Quando mio marito è arrivato a Imola pensava di dover fare solamente il direttore dell’autodromo, invece si accorse che c’era tanto da organizzare: doveva trovare i soldi, gli sponsors; ma cosa più importante c’era da modernizzare il circuito. Fu lui che progettò e costruì il corpo box, che ora non esiste più, e la Torre, per tutti gli imolesi ancora conosciuta come Torre Marlboro. Cominciammo a lavorare a settembre. C’era tutto da rifare: le tribune, la pista; e il Gran Premio era a inizio stagione. Per noi è stata una sfida. Il problema più grande è stato adattare il circuito con le specifiche date dalla FIA, in quanto Imola era nata come pista per moto. Questo forse è il ricordo più bello che ho: la prima volta che sono partite le auto di F1. È stata un’emozione incredibile perché nessuno ci avrebbe creduto. Ricordo che anche quando sono partite le moto è stata un’emozione altrettanto grande perché si erano fuse due cose che fino ad allora Imola non aveva.
Nel 2017 ha partecipato alla nuova inaugurazione del monumento a Gilles Villeneuve a Imola. Con l’occasione è stato anche posto un muretto in memoria di Suo marito. Cosa ha significato per Lei quel momento?
Mio marito è mancato nel 2013 ma noi ci siamo ritirati dal motorsport nel 2004. Da allora non abbiamo più rimesso piede in questo mondo. Quando lui è mancato io abitavo a Gallipoli, mi avevano invitato altre volte a Imola ma io avevo sempre rifiutato. Quel giorno mi dissero che dovevano spostare il monumento di Villeneuve perché con le modifiche fatte alla pista era rimasto all’interno e non era più accessibile al pubblico. Nessuno mi aveva avvisato che avrebbero posto un muretto in sua memoria [del marito, NdR]. Quando ho accettato, lasciando tutti stupiti, e sono arrivata qua, ho visto il muretto con la scritta “Da Gilles ho avuto una lezione di vita: non darsi mai per vinti. -Roberto Nosetto” ed è stato come fare un elettrocardiogramma. Ho capito che inconsciamente qualcosa dentro di me mi aveva spinto a venire, e dopo mezz’ora ho deciso di tornare a vivere a Imola.
Parlando ora della situazione attuale di Formula 1, il nuovo CEO Stefano Domenicali non è un personaggio sconosciuto per Lei. Come lo descriverebbe in tre parole?
L’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto. Stefano ha cominciato con noi, molto umilmente facendo il volontario al paddock. Pian piano si è fatto conoscere. È stato alla Ferrari, è stato Team Principal, poi è andato alla Lamborghini dove ha avuto un grande successo. Non so cosa l’abbia spinto a prendere questa decisione, ma sicuramente la Formula 1 non è più quella di una volta. L’audience sta calando. Bisogna rinnovarla. In più c’è l’elettrico che spinge. Io credo molto in lui perché è un uomo formato. Credo stia lavorando molto bene e che renderà molto fieri gli imolesi. C’era bisogno di una persona come lui con la sua esperienza.
Quale consiglio darebbe ai giovani d’oggi che vogliono iniziare una carriera nel mondo della Formula 1?
Semplice e corto: giù la visiera e piede a tavoletta. Era la frase che si dicevano Gilles e Roberto. Da Gilles ho avuto una lezione di vita, mi ha insegnato a non darsi mai per vinti. Se una persona ha un sogno e va avanti, credendoci riuscirà a raggiungerlo. C’è bisogno di perseveranza e non bisogna scoraggiarsi. Mio marito avrebbe avuto più di qualche occasione per darsi per vinto, ma non l’ha mai fatto.
Infine, sappiamo che Lei ha una passione per il verde, potrebbe spiegarci il perché?
Molto semplice: il verde è speranza. Secondo me, la speranza è l’ultima a morire e dev’essere l’ultima a morire. Bisogna sperare fino all’ultimo perché quando perdi la speranza perdi tutto e non hai più niente.
Un ringraziamento alla signora Renata Nosetto che ha gentilmente accettato di essere intervistata dal nostro team e allo Scuderia Ferrari Club di Rovigo, in particolare al signor Amelio Ruzza, per aver reso possibile questo incontro.
L’intervista completa è presente sul nostro canale youtube!
Intervista a cura di Martina Spinello e Laura Visentin.
Video editing a cura di Giulia Trevisan.