La Formula 1 e l’Indycar sono due mondi apparentemente simili, ma in realtà molto distanti. La fusione dei due è sempre apparsa impossibile, sebbene si sia provato a introdurre la 500 miglia di Indianapolis nel calendario F1 tra il 1950 e il 1960. Regolamenti troppo diversi, una visione del motorsport quasi opposta, eppure qualche audace pilota decide di abbandonare la ben più famosa Formula 1 per l’americana Indycar, e alcuni di loro ne diventano delle icone.
Due mondi Indycar Formula 1
La Formula 1 è nota per la sua tecnologia all’avanguardia, l’innovazione che spinge i limiti dell’ingegneria automobilistica. Le monoposto di Formula 1 sono incredibilmente veloci e sofisticate, con motori ibridi e aerodinamica estremamente avanzata. D’altra parte, l’Indycar si concentra più sullo spettacolo, tra l’alta velocità degli ovali e i difficili circuiti permanenti e cittadini statunitensi. Le vetture Indycar sono potenti, con motori V6 turbo da 2,2 litri che possono raggiungere velocità più elevate della F1, anche se, causa aerodinamica, sarebbero teoricamente più veloci solo sugli ovali.
Molti piloti di Formula 1 hanno deciso di intraprendere la sfida di passare all’Indycar già dagli anni ’50, spinti dalla ricerca di nuove emozioni e dalla voglia di competere in un ambiente diverso, o dalla necessita di avere un sedile che in F1 non gli è stato offerto. Questa transizione richiede adattamento e una diversa mentalità di guida. Mentre la Formula 1 richiede un approccio più strategico e tattico, con enfasi sull’efficienza e la gestione delle gomme, l’Indycar richiede spesso un’impostazione più aggressiva e una guida più diretta, data la natura delle gare e l’utilizzo di strategie che prevedono un numero più alto di pit stop.
È un rischio che può portare grandi ricompense. Piloti iconici come Jim Clark e Nigel Mansell hanno dimostrato che è possibile trovare il successo in entrambi i mondi, mentre altri si stabilizzano in Indycar, dove sentono di aver trovato la loro dimensione.
Uno scozzese in America Indycar Formula 1
Dopo la prima esperienza di Alberto Ascari, fallimentare, sembrava che tra un campionato e l’altro creare un canale di passaggio sarebbe stato impossibile. Ma poi, negli anni ’60, arriva Jim Clark. Già campione del mondo di Formula 1, insieme al suo team principal Colin Chapman, cova il sogno di portare la Lotus a vincere la gara più importante al mondo. Ci vorranno anni, la vettura da portare negli USA è un coraggioso riadattamento del telaio da F1. Certo, è una scommessa, ma che alla fine si rivela vincente. Nel 1965 i loro sforzi vengono ripagati: Clark resta in testa per 190 dei 200 giri previsti, e vince sconvolgendo il pubblico: un non americano non vinceva da mezzo secolo ormai. Si tratta della sua più grande impresa al volante, al pari della vittoria nel GP del Belgio 1963, quando chiuse con cinque minuti di vantaggio su Bruce McLaren.
Proprio Bruce McLaren non farà in tempo a vedere la sua squadra giungere in Indycar e vincere in due epoche diverse. Farà in tempo, però, a vedere il secondo inglese che porterà a casa il trofeo: Graham Hill, sulla spinta di Jim Clark, riprova la Indy500 che aveva fallito nel 1963. Nel 1966, Hill vince. Ormai la porta si è aperta.
L’Indycar dei sudamericani
Per fare il passo successivo, è necessario un brasiliano, capostipite di una delle famiglie più importanti del motorsport: Emerson Fittipaldi. Dopo aver vinto due mondiali in F1, si trasferisce in America, si iscrive al campionato CART nel 1984, antenato dell’Indycar. L’anno dopo arriva la prima vittoria, in Michigan, su un ovale. Emerson non si ferma lì: con il team Patrick Racing inizia a vincere gare ogni anno. Chiude tutti i campionati in alta classifica. La svolta è il 1989: vince la 500 miglia di Indianapolis, e poi altre 4 gare, ed infine si laurea campione, il primo campione CART che proviene dalla F1.
Nigel Mansell sarà il successivo: nel 1993, già campione del mondo di Formula 1, lascia la McLaren per correre in Indycar. Vince all’esordio, a Surfers Paradise, e nemmeno il dolore alla schiena dopo un incidente a Phoenix lo ferma. Dieci podi, di cui sei vittore, ed è campione. L’anno dopo non riuscirà a ripetersi, ma quel canale che si è aperto adesso diventa un corridoio stabile.
Juan Pablo Montoya giunge in Formula 1 dopo esser diventato un’icona dell’Indycar: campione CART nel 1999 e vincitore della Indy500 nel 2000. Approda in F1 con Williams, nel 2001, ottiene il primo successo nella categoria a Monza quello stesso anno. Dopo qualche rimpianto per un mondiale mai arrivato, Montoya lascia la McLaren nel 2006. Si sposta in NASCAR e ci resta con un discreto successo fino al 2013. Tuttavia, nel 2014, Montoya torna al suo primo amore: l’Indycar. La 500 Miglia di Indianapolis è di nuovo sua nel 2015. Anche in Indycar, però, mancherà il titolo. Si ritira con molte occasioni mancate, ma con la consapevolezza di essere stato il più importante pilota dei due mondi.
Oggi: un corridoio di successo
Poco dopo, torna nella madrepatria Alexander Rossi: dopo aver svolto il ruolo di pilota di riserva nella scuderia di Formula 1 Caterham, Rossi cerca nuove opportunità negli Stati Uniti. Al suo esordio, con una strategia folle che prevede di percorrere l’ultimo giro di gara senza benzina, vince la 500 miglia di Indianapolis. In seguito faticherà a trovare i risultati sperati, restando però nei top team.
E infine, tra un Sebastien Bourdais che nel periodo dello split di titoli ne vince, e non pochi, e un Fernando Alonso che fa due fugaci apparizioni, arriva Marcus Ericsson. Giunge dall’Alfa Romeo, racconta di aver paura degli ovali. Chip Ganassi, però, vede in lui del talento dopo la prima stagione, e gli dà fiducia. La prima vittoria arriva a Detroit, nel 2021. L’anno dopo, ecco il successo nella gara più importante: alla 500 miglia di Indianapolis Ericsson si difende coraggiosamente. Lì supera la sua paura degli ovali, e vince!
E mentre Grosjean è ancora a caccia del primo successo, l’Indycar sta guadagnando popolarità anche tra gli appassionati di F1. Qualche pilota negli anni ’60 ha avuto il coraggio di osare. Qualcuno, negli anni ’80 e ’90, di cambiare vita. Qualcuno, ad oggi, trova proprio in Indycar la sua dimensione. E noi, dal nostro divano, continuiamo a tifarli. E se oggi l’Indycar è popolare anche in Europa, è soprattutto merito loro, di persone coraggiose, di piloti che hanno sfidato gli stereotipi.