A sentir la storia dell‘Andrea Moda Formula, non si può far a meno di sorridere. Tanto breve quanto avvincente, l’implausibile parabola della squadra corse italiana si condisce di vicende dal sapore fantozziano, ritagliandosi, per demerito, uno spazio unico negli annali della F1.
Talmente bizzarra da diventar leggenda, l’Andrea Moda infatti, non si contraddistinse per i successi ottenuti, bensì per le tragicomiche vicende di cui fu protagonista.
Le origini del mito: nasce il team Andrea Moda Formula
È il 1991 quando Andrea Sassetti, imprenditore calzaturiero marchigiano, prende la scellerata quanto coraggiosa decisione di fondare nientepopodimeno che un team di F1.
L’obiettivo? Dare visibilità al suo marchio aziendale – Andrea Moda – specializzato nella realizzazione di calzature femminili. Palcoscenico, quello della massima categoria a quattro ruote, da lui giudicato ideale. Punto di partenza, la rilevazione di parte delle risorse della Scuderia Coloni, all’epoca uscente dalla F1.
Fu così che prese avvio il progetto di una squadra sgangherata, messa in essere attraverso il coinvolgimento di inesperti ingegneri e meccanici locali, nonché raccattando pezzi da altri team per l’assemblaggio della vettura.
La celebre S920, dalla caratteristica livrea nera scarna di sponsor, sfruttava il telaio disegnato dalla Simtek per un progetto con BMW mai realizzato e impiegava i propulsori Judd. Un’accozzaglia che non poteva far altro che dar luogo a una monoposto infelice, nelle mani di una squadra inadeguata, ma che tuttavia non mancò di segnare la storia dello sport di cui fu parte.
Andrea Moda: una serie di sfortunati eventi
L’avventura automobilistica della squadra corse di Sassetti iniziò nel peggiore dei modi.
Il confezionamento delle vetture subì un ritardo nella tabella di marcia, costringendo i due piloti titolari, Alex Caffi ed Enrico Bertaggia, a scendere in pista all’appuntamento inaugurale di Kyalami con vetture di transizione che impiegavano il telaio della vecchia Coloni.
Scendere in pista si fa per dire…
Dopo aver compiuto pochi giri nelle libere del giovedì, infatti, le vetture furono squalificate per il mancato pagamento della quota di iscrizione che le nuove squadre erano tenute a versare per prendere parte al campionato 1992.
L’appuntamento seguente fu, se possibile, ancor più infelice. La mancata spedizione di alcuni materiali dall’Europa impedì l’assemblaggio delle vetture e dunque la partecipazione al GP del Messico. Ciliegina sulla torta, le tensioni interne al team che sfociarono nella dipartita di entrambi i piloti dalla squadra.
Le speranze si riaccesero così in Brasile: con pezzi e materiali presenti all’appello, i nuovi titolari Roberto Moreno e Perry McCarthy si accingevano a disputare il weekend di gara. Peccato però che le prestazioni della vettura fossero talmente insufficienti da non passare il taglio delle prequalifiche, con la vettura di Moreno che si piazzò a 15′ dall’ultima monoposto in griglia.
Un’eternità.
Quanto a McCarthy, non poté nemmeno tentare, dal momento che il pilota si presentò al Gran Premio sprovvisto di superlicenza.
Sorte avversa e totale inesperienza continuarono ad affliggere lo sventurato team, che si ritrovò a saltare il Canada, per mancanza di motori, e il GP di Magny-Cours causa sciopero dei trasporti. L’escalation negativa raggiunse quindi il suo apice al GP di Gran Bretagna: per assurdo, il mancato pagamento di Goodyear lasciò il team provvisto solamente di mescole da bagnato, sotto un insolitamente cocente sole inglese.
Il miracolo di Monaco
Tra le tante nefaste vicende, vi fu anche una piccola soddisfazione.
A Monaco la squadra riuscì, per la prima e unica volta, a prendere parte a un Gran Premio, sebbene con una sola vettura, quella di Roberto Moreno, che si distinse nell’impresa di siglare un giro sufficientemente buono da valergli la qualificazione. Per il pilota brasiliano, la gara fu però di breve durata: solo undici furono infatti i giri che la S920 riuscì ad inanellare, complice un propulsore incapace di percorrere i km previsti da un GP.
Seppur per poco, l’esser riusciti a prendere parte a un Gran Premio di F1 per una scuderia tanto modesta, nata dal nulla con risorse materiali e umane prive di ogni pretesa, significava impresa.
La consapevolezza di aver superato i limiti del possibile e di averci messo anima e corpo, nonostante i risultati tutt’altro che convincenti, rieccheggerà più tardi nelle parole di Moreno: “Correre in F1 è difficile. Correre e vincere in F1 è molto difficile. Correre in F1 sull’Andrea Moda è un miracolo. E l’ho fatto solo io“.
La rocambolesca fine di una rocambolesca avventura
Le mirabolanti avventure dell’Andrea Moda si conclusero anzitempo e con un finale decisamente in linea col carattere farsesco dell’intera vicenda.
Sassetti, già particolarmente inviso all’allora patron della F1 Bernie Ecclestone, fu accusato di aver erogato false fatturazioni. Alle accuse seguì un mandato di arresto internazionale a cui fu data esecuzione in quel di Spa, dove venne arrestato e il materiale del team pignorato.
L’imprenditore venne quindi squalificato a vita dallo sport, dal momento che le sue azioni ne avevano danneggiato l’immagine.
Quella dell’Andrea Moda è certamente una vicenda d’altri tempi. Irrepetibile, non solo per la sua unicità, ma anche perché fu causa stessa di provvedimenti volti a impedire che realtà così marginali potessero prendere parte al campionato.
Ciononostante, la bizzarra storia dell’Andrea Moda, di recente raccontata anche in una docu-serie, serve a rievocare un’epoca della F1 destinata a restare solo nei ricordi. Una versione dello sport non necessariamente più autentica, ma certamente più umana, dotata di una tridimensionalità che si fatica a ritrovare nello scintillio della F1 contemporanea.