La verità è che la Formula Uno non ha bisogno di Jeddah. Annunciato nel 2020, nel mezzo del movimento “We Race As One”, il circuito “con la velocità di Monza, ma con i muri di Montecarlo” ha da sempre suscitato molte polemiche, sin dalla sua nascita.
La cittadina di Jeddah si affaccia sul Mar Rosso, una piccola oasi miliardaria in mezzo al deserto dell’Arabia Saudita. Difficilmente raggiungibile dall’estero per la sua posizione e per la delicata situazione politica (basti pensare alle bombe dell’anno scorso, cadute a soli 20 km dal circuito), il Gran Premio d’Arabia Saudita è poco frequentato, ad esempio, anche dalle più assidue mogli e fidanzate dei piloti (problema da poco per FIA, un po’ di più per qualche rubrica gossip che, almeno per questa settimana, rimarrà a bocca asciutta).
Parlando invece di estetica, l’imponente paddock è una gigantesca struttura verde e bianca (i colori dell’Arabia) che vuol ricordare una foresta. Ma il circuito si allontana dall’alto e il colorato sfarzo a cui la Formula Uno, negli ultimi anni, sembra tendere (basti pensare a Miami o a quello che vedremo presto a Las Vegas). Solo asfalto, muri e luci per illuminare la notte, neanche i cordoli verdognoli riescono a rallegrare l’atmosfera. Nessuno spettacolo, forse qualche fuoco d’artificio: un unicum in una Formula Uno che predilige sempre di più l’attrazione, per strappare qualche biglietto in più.
E anche quando si parla di spettacolo in pista, Jeddah non brilla particolarmente. Bandiere rosse su bandiere rosse causate da incidenti su incidenti, ovviamente non piacevoli da vedere per il grande pubblico. L’anno scorso, oltre all’incidente di Mick Schumacher (che ha posto il problema dell’effettiva sicurezza del circuito), in F1 ci furono ben 6 (ri)partenze. Il risultato? Una gara più lunga e più spezzata, con uno spettatore più annoiato. A “salvare” la gara negli ultimi giri furono i duelli Verstappen- Leclerc nel 2022 e di Hamilton-Verstappen nel 2021.
Ma soprattutto, il paradosso più grande del correre a Jeddah è il fare accordi e il pubblicizzare un paese dove i diritti umani sono violati. Da ricordare la polemica del dress code di due anni fa, quando gli organizzatori inviarono alla Federazione una rigida lista di regole riguardo l’abbigliamento. Sembra proprio che, davanti ai soldi, non ci siano principi o “We Race as One” che tengano. Somme ingenti a cui (a quanto pare) non si riesce a rifiutare neppure davanti alle mille richieste di altri paesi, che spintonano per guadagnare un posto nell’ambito calendario.